Fare i conti con il festival

Rilanciamo volentieri un intervento di Stefano Bartezzaghi (uscito su Repubblica di domenica 12 novembre) in cui Elastica si riconosce molto. Buona lettura

Fare i conti con il festival

Di Stefano Bartezzaghi

Di queste città non rimarrà che l’evento che le attraversa”. Basta una minima deformazione, la metamorfosi del “ vento” originale in un non meno incorporeo “ evento”, per guastare la poesia del celebre verso di Bertolt Brecht e, in prosa, dire qualcosa su noi stessi e il nostro tempo. Sì, perché l’associazione ormai quasi automatica fra nomi di luoghi e materie ( Mantova: letteratura; Sarzana: mente; Trento: economia; Modena: filosofia; Genova: scienza; etc.) è il prodotto di un lavorio ormai ventennale, che ha conferito nuove qualificazioni culturali alla geografia nazionale. A studiarne l’impatto sui territori ha cominciato dieci anni fa l’economista Guido Guerzoni, con un’opera pionieristica per l’Italia. Strumenti di valutazione già elaborati per festival soprattutto americani e anglosassoni possono essere adattati alla situazione italiana ed è quanto ha fatto Guerzoni, collaborando con Giulia Cogoli (ideatrice e a lungo direttrice del “Festival della Mente”, a Sarzana e, attualmente, dei “Dialoghi sull’uomo”, a Pistoia): innanzitutto per definire con rigore il fenomeno, quindi per studiarne le ricadute. La prima ricerca di Guerzoni, Effettofestival, è del 2008. Altre ne sono seguite e viene pubblicato in questi giorni un nuovo studio focalizzato sull’“ impatto di comunicazione dei festival di approfondimento culturale”, in particolare sul caso Pistoia — “Dialoghi sull’uomo 2017” ( Effettofestival 3, edito dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia).

Festival: in Italia la parola ha a lungo evocato soltanto Sanremo e la canzonetta. Ma proprio sul finire dello scorso secolo, con lo sfiorire di riviste e altri media tradizionali per la cultura e con l’ergersi dell’enigmatico colosso della Rete, qualcuno ha cominciato a percepire una domanda diffusa. Non solo le “professoresse democratiche” che Edmondo Berselli prendeva in giro, rimanendo adorato dalle stesse: anziani e giovani, colti e meno colti, gente cosiddetta comune (se ne sono accorti persino sindaci, assessori, fondazioni bancarie e associazioni di categoria) era tacitamente disponibile a dedicare un giorno di ferie e un weekend alla partecipazione a un festival. Non c’è solo l’ascolto di una conferenza, un reading, un dibattito, a costituire un piacere (piacere, sì: raramente nelle aule universitarie si crea il silenzio partecipe che è abbastanza comune ai festival). Vedi un centro storico di cui hai sempre e soltanto sentito parlare e, oltre a vederlo, in qualche modo lo abiti; assaggi una culinaria per te inusuale, ti fai firmare un frontespizio, scambi due battute con uno scrittore o uno studioso magari incontrato al bar o in trattoria. È un clima, che rende semplici cose che prima, semplicemente, non capitavano.

La cronologia viene fatta partire dal 1997, con la prima edizione del “Festivaletteratura” di Mantova. Una genealogia però c’era già e contemplava: capostipiti austeri e ancora in vita, come il “Festival dei Due Mondi” di Spoleto e la Biennale di Venezia; un rispettabile ramo commerciale della famiglia, con il Salone del Libro e le altre fiere; un ramo più popolano, con le Feste dell’Unità e gli altri festival di partito; almeno uno zio trasgressivo e divertente: la stagione dell’“ effimero” di Renato Nicolini. Mantova diede la buona idea e il miglior esempio: si diffusero presto iniziative analoghe, ognuna con caratteri propri. Il piccolo e raffinato “Fondamenta”, inventato a Venezia dal caro Daniele Del Giudice aprì nel 1999 una via alternativa al gigantismo: era un “festival d’autore” e, per l’allora semisconosciuto Zygmunt Bauman, Daniele mutuò dalla tradizione accademica delle lauree honoris causa il format solenne della “lectio magistralis” — ora diventato merce comune.

Ma per quanto dalle Estati romane di Nicolini gli anni passati siano quaranta, e quindi il doppio, il marchio dell’“effimero” continua a ritornare, e in accezione spregiativa, nelle critiche alla cultura portata nelle piazze, alla “gente” che accorre “per divismo” nei confronti di scrittori e pensatori, al sospetto che dei festival, alla fine, non resti nulla. Soldi buttati in operazioni di facciata, quando alle città occorre, mugugnano gli accigliati, “ ben altro”. Critiche, quando non accuse, che ricadono sotto la specie: “con la cultura non si mangia”, motto attribuito a un ex ministro dell’Economia (uomo peraltro colto, e da tempo impegnato a smentire di averlo mai pronunciato). Va quindi interpellata proprio l’economia, poiché non è quella poetica la metrica che può stabilire se veramente dei festival non resti nulla, fuori dal presente effimero dei tre o quattro giorni del loro svolgimento. Ci vogliono i numeri, a questo disgraziato e sgraziato mondo, e per fortuna che, graziosamente, ce li dà Guerzoni.

Come lui stesso, con scrupolo deontologico, premette, questo tipo di ricerche impiega strumenti di misura forzatamente approssimativi e non ancora ben collaudati. I dati su cui ci si può basare per quantificare la comunicazione generata da un festival e la sua ricaduta in reputazione sono gli spazi che gli vengono dedicati dai diversi media, vecchi e nuovi, le loro diverse tipologie (pubblicità, articoli, commenti), il pubblico di lettori e spettatori che riescono a raggiungere. Andando al sodo, risulta che la produzione del festival di antropologia di Pistoia è costata trecentotrentamila euro e ha ottenuto una copertura mediale ( media coverage) di un valore oscillante fra 1,18 e 1,49 milioni di euro, a seconda che si considerino i prezzi di listino dei concessionari pubblicitari o si applichino gli sconti che un festival già ben reputato può ottenere. Pubblicità esclusa, la maggior parte di questa copertura è costituita da contenuti che i modelli impiegati da Guerzoni aiutano a valutare in euro ma che difficilmente potrebbero essere ottenuti a pagamento. Guerzoni ha applicato “principi massimamente prudenziali” per ricavare questa stima: il valore complessivo è dieci volte il budget speso in pubblicità e quattro-cinque volte il costo di produzione del festival. Un comune come quello di Pistoia dovrebbe quindi spendere più di un milione, forse un milione e mezzo, perché si parli altrettanto della città e non è neppure detto che otterrebbe lo scopo, senza un festival che induce i media ad annunciarne il programma, intervistarne gli invitati, farne la cronaca.

Solo folate di evento? Oltre all’incremento turistico, alla diffusione della conoscenza delle particolarità climatiche, monumentali, eno-gastronomiche di un territorio, un festival contribuisce in modo a volte decisivo a qualcosa che chiamiamo “ immagine”, quando la vogliamo sottovalutare, e “identità”, quando le vogliamo dare valore. Il suo nome preciso, piaccia o non piaccia, è però “cultura”.

Se non lo comunichi non esiste

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